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La dignità civile di un poeta: Pablo Neruda nel romanzo di Ruggero Cappuccio

lunedì 16 gennaio 2017, di redazione


R. Cappuccio, La prima luce di Neruda, Feltrinelli, Milano, 2016 - pp. 170 - Euro 15,00

Dopo lo splendido romanzo Fuoco su Napoli (Premio Napoli, 2011), Ruggero Cappuccio torna a deliziarci col suo ultimo lavoro in cui ritroviamo l’assoluta padronanza della parola che fa del drammaturgo e regista napoletano uno degli scrittori più raffinati degli ultimi anni. Si coglie, infatti, con immediatezza, l’eleganza di una scrittura capace di riprodurre un cromatismo emotivo che, non poche volte, registra picchi lirici degni del poeta cileno, protagonista della storia narrata.

Siamo a Napoli, nel 1952. In un freddo mattino di gennaio, in una modesta pensione del centro, Pablo Neruda viene bruscamente svegliato da due funzionari di polizia che hanno il compito di accompagnarlo a Roma, per essere poi trasferito in Svizzera a seguito di un decreto di espulsione firmato dall’allora ministro Scelba. Perseguitato per le sue idee politiche dal dittatore Gonzáles Videla, il poeta cileno si ritrovò con l’etichetta di ‘ospite indesiderato’, e come tale, costretto a lasciare l’Italia. Ma al suo arrivo alla stazione Termini fu accolto da una gran folla che protestava con forza contro la decisione del governo.
Tra i manifestanti c’erano personaggi di spicco della intellettualità italiana come Renato Guttuso, Elsa Morante, Alberto Moravia e Carlo Levi, vicini alle posizioni del Partito Comunista rappresentato da Maurizio Caprara, segretario particolare di Palmiro Togliatti. La reazione popolare che rischiava di creare problemi di sicurezza e di ordine pubblico, riuscì comunque a far revocare l’atto di espulsione. Nella gran ressa, tuttavia, il poeta poté scorgere sia la moglie Delia, che la figura di Matilde, quest’ultima apparsa come un fantasma a qualche binario di distanza e sparita poi presto nella confusione. Sarà proprio lei, Matilde Urritia, cantante lirica conosciuta a Santiago, la donna con cui Neruda vivrà intensamente il suo rapporto d’amore sino alla fine dei suoi giorni, avvenuta nel settembre del 1973, lo stesso anno tragico del golpe militare di Pinochet in cui perse la vita anche l’amico Presidente, Salvador Allende. Neruda, vecchio e gravemente malato, asserragliato nella sua casa di Isla Negra affacciata sul Pacifico, apprende la drammatica notizia alla radio dalla viva voce di Allende, tra interferenze e riverberi. Nella tragicità del momento con un guizzo poetico riflette amaramente sul loro destino: «Guarda, Matilde. Fuori c’è un bel sole. Questi poveri generali che fucilano la gente hanno l’anima divorata dal loro misero io. … I dittatori scelgono di scontare in vita il loro inferno. Guarda l’oceano, invece. L’oceano detta leggi eterne, muove le sue onde, incurante della piccola congiuntura di un colpo di stato. Per noi questa tragedia del Cile è tutto. Per il mare è niente».

Nella narrazione il poeta risale il flusso della memoria, rievocando eventi, luoghi e momenti della loro vita di amanti, in cui, inestricabilmente, amore e impegno civile, passione e lotta politica, sono sempre vivi e incandescenti. E allora ritornano le emozioni del primo incontro, le ansie degli spostamenti coatti col rincorrersi per le città europee (Berlino, Ginevra, Roma, Napoli).
Particolarmente intenso è il ricordo della lunga permanenza a Capri grazie all’ospitalità dell’architetto Cerio, dalla cui casa, Neruda affacciato sull’incanto del mare, scorge la linea lontana dell’orizzonte e coglie «la promessa della luce», la speranza del nuovo. Sull’isola, dove la natura amplifica la sensualità del loro legame, il poeta, non poche volte, avverte il disagio di sentirsi “un esule di lusso”, anziché «essere in Cile assieme agli operai, a insegnare l’alfabeto ai bambini, a partecipare alle riunioni dei contadini, e soffrire con loro». Proprio a Napoli, nel 1952, per interessamento di un nutrito gruppo di intellettuali e politici (tra cui Primo Levi, Luchino Visconti, Jorge Amado, Vasco Pratolini, Giorgio Napolitano, Salvatore Quasimodo, Palmiro Togliatti) vide la luce - sia pure in poche copie - la raccolta poetica I versi del Capitano, che l’autore dedica alla donna amata.

Il poeta cileno, odiato e perseguitato da molti Stati, ma amato dalla gente semplice che venerava ogni sua poesia, nel 1971 riceve il Nobel per la letteratura per il riconoscimento unanime della «potenza di una forza della natura [che] fa vivere il destino e i sogni di un intero continente».

Con maestria, Cappuccio riesce a tessere la trama di quello che fu un rapporto d’amore travolgente, assoluto, nonostante ogni difficoltà, ogni traversia e ad offrirci il profilo tenace di un uomo libero che seppe, nell’autunno della propria esistenza, rivolgere ai suoi simili e al mondo uno sguardo intriso di humana pietas e riflettere, serenamente, sulle tragicità della Storia e sulle inadempienze della vita.

Giovanni Nacca

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