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L’incrinatura del reale nella poesia di Franca Mancinelli

domenica 1 novembre 2020, di redazione


La poesia per Franca Mancinelli – di cui Marcos y Marcos ha appena pubblicato Tutti gli occhi che ho aperto – è vissuta come un flusso ininterrotto che da sempre le attraversa il corpo. Flusso travolgente che scorre e consuma, erode, affinché riaffiorino segni, immagini, percezioni, ricordi che il tempo ha impresso come un codice a cui non può che obbedire.
Dall’inquietante buio dell’Io, un magma preme, spinge per trovare luce, per potersi comprendere, riconoscersi nella propria autenticità. E l’erosione di questo fiume carsico pulisce, scrosta, leviga la parola che si incastona in un verso secco, misurato, essenziale, laddove i nomi, le cose, i gesti, brillano nel recinto del loro originario significato:

fanno un rumore secco
le cose che sono state vive

Due soli versi, sfrondati, asciutti, ma potenti nel relazionarsi a un concetto di sfinimento, di consunzione, di morte, il cui nero si accende nei versi e tutto sembra giustificarsi nella voracità di quel buco nero:

sono le perle del tempo, le morti
le attraversiamo come un filo

*

l’infinito dei morti
espande un’altra galassia

Un costante senso di tragicità permea tutta la scrittura della Mancinelli che si configura come transito dolente nel tempo e nello spazio, sia esso l’emergere dal buio del passato di statuine ed ex voto del Quinto secolo a. C., che l’odierno calvario subìto da migranti e rifugiati lungo la terribile ‘rotta balcanica’ nel drammatico dissolversi di ogni residua umanità. Frammenti e schegge della vita sono messi a fuoco dal suo occhio interiore che, simile all’occhio composto degli insetti, ha il potere di catturare tutto da diverse angolazioni nel tentativo di comporre la tela lacerata, frammentata del reale. E la tessitura è affidata – come suggerisce il titolo stesso della raccolta – proprio alla plurima capacità di osservazione e di indagine della poetessa.
Ogni verso sembra giungere da un luogo remoto, da un altrove non precisato di cui si percepisce il rossore di una lontana brace, come quando vengono rievocati momenti e immagini dell’infanzia:

il ritratto di chi
si china come pregando a uno specchio:
la luce è la lingua di un luogo.

*

e girano sopra di me le stelle,
api intorno alla mia polvere d’oro …

Anche in questi versi, che pure hanno una loro delicatezza, s’avverte però sempre uno stato di minaccia, un pericolo oscuro che incombe:

non più lacrime o
confini sigillati da una fiamma

tutti lentamente smettere
come la pioggia che ridona all’aria,
a un tratto come le stelle
di luce spegnerci insieme.

All’ ‘inappartenenza’, cui sembra condurre la voce della Mancinelli, si aggiunge l’arditezza di metafore, ossimori, immagini e assonanze che innescano una disorientante sconnessione logica tale da rendere tutt’altro che immediata la comprensione del testo:

raccogli briciole di vetro
e ciò che cresce dalle crepe,
a ogni centesimo di rame
paziente porgi la ciotola del ventre.

*

con la forza del niente
del non avuto mai
niente da barattare,
i gesti ricompongono una lingua
si allaccia al mio corpo un’armatura.

La complessità e il fascino di questi versi si deve al ricorso a un collaudato mimetismo della poetessa, per cui predomina un senso di mistero, di pericolo incombente che pone il lettore in uno stato d’allerta. Le parole giungono come dettate da lontano cariche di presagio, suggerite da uno sconosciuto oracolo, il reale appare incrinato dalla visione. Eppure, esse lentamente riemergono, ricevono e irradiano luce. Come quando osserva gli alberi di una foresta o ripensa alcune tele di Van Gogh:

dai rami della
specie la nuca, una
cima in ascolto
tentenna

tutto l’andare è tornare
un fascio di legna raccolta.
La sua fiamma mi schiuderà le mani.

*

ci sono intere colline di occhi
spalancati alla luce,
per non impazzire li ho colti
e guardati in un vaso

 mentre ti aspetto, più denso
si fa nel giallo l’impasto di morte.

Una scrittura che non poche volte richiama l’opera di autori come Milo De Angelis che considera la poesia una disciplina, un esercizio rigorosamente controllato al pari di quanto avviene nelle piste di atletica leggera, laddove l’atleta è concentrato nella ripetizione ossessiva del gesto per poter migliorare le proprie prestazioni (vedi in Colloqui sulla poesia. Milo De Angelis, a cura di I. Vincentini, 2008). Anche la Mancinelli nella sua idea di poesia ricorre a una felice immagine che deriva dalla pratica sportiva: il nuoto. In A un’ora di sonno da qui (2018), che raccoglie i suoi precedenti lavori poetici, Mala kruna (2007) e Pasta madre (2013, con una nota proprio di Milo De Angelis) scrive:

«Penso che si arrivi alla fine del verso, come di una vasca, muovendosi all’interno di una misura. Una serie di gesti si ripete fino a che si raggiunge una sorta di equilibrio per cui sembra di non muoversi, ma di essere portati. Chi infrange il codice di movimenti e si dibatte oltre la forma stabilita, affatica il suo corpo e alla lunga lo addolora. I suoi schizzi suonano stonati, non necessari. […] Il fatto è che i movimenti sono già tutti scritti. L’unico pensiero è quello di aderire, di eliminare ogni intenzione che esce dal tracciato. […] Lo stile libero non esiste, non si è mai liberi se si vuole nuotare».

La lunga citazione è riportata non solo per sottolineare un medesimo campo di riflessione condiviso col grande poeta milanese, ma anche per evidenziare quanto la densa poesia della Mancinelli esuli da ogni forma di improvvisazione, di meccanica o stucchevole manipolazione delle parole.
Nella sezione finale, Diario di passo, la poetessa riporta, come su un taccuino, un’esperienza vissuta in inverno in territorio croato, territorio di doloroso transito, segnato dalla disperazione di una perduta umanità, bloccata da schieramenti di polizia, da «chilometri di spirali avvolte su se stesse». Protagonista di queste prose poetiche è la neve col suo correlato di bianco, freddo, silenzio e solitudine:

«non è un caso che sia caduta la neve, coprendo questa terra, cancellando la traccia di tutti quelli che hanno vegliato e bivaccato al confine, portati da treni e ore di cammino, con uno zaino, una borsa, sorvegliati dalla polizia e dalle forze speciali schierate come un’altra rete di filo spinato. La neve è caduta su tutto questo, ha ristabilito la pace che ora calpestiamo: questo silenzio, questa solitudine di alberi carichi dei frutti del gelo».

La poetessa, quasi affida alla neve il potere salvifico di coprire, di cancellare i soprusi di oggi, incredula che tanta violenza potesse ripresentarsi dopo gli orrori del recente passato. Quell’inverno, che in altro tempo e in altro contesto storico, fu esplorato da altri poeti della ‘linea adriatica’, da Ferruccio Benzoni a Francesco Scarabicchi, da Gianni D’Elia a Stefano Simoncelli, approda in qualche modo nella poesia di Franca Mancinelli non solo come forma di gelida immobilità, ma anche come forma di attesa, di ripartenza:

«Come se la lente dell’inverno restituisse l’immagine nitida, ricongiunta alla sua essenza. È sempre questo che cerco, oltre il germoglio e la chioma, il disegno nudo, la trama dei rami come nervature della vita».

Giovanni Nacca

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