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Storia della nostalgia e della sua metamorfosi negli studi di Vito Teti

giovedì 11 febbraio 2021, di redazione


V. Teti, Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Marietti 1820, Bologna
anno 2020 – pp. 287 – Euro 20,00

In un tempo in cui la pandemia stravolge il presente e rende incerta ogni idea di futuro, non poche volte siamo ritornati col pensiero al passato, alla ricerca di una dimensione rassicurante su cui proiettare il nostro bisogno di sicurezza. Vecchie foto di famiglia, canzoni da riascoltare, film da rivedere, classici da rileggere: tutto è stato rispolverato per sfuggire, esorcizzare il presente pericolo.
Azioni che, inevitabilmente, avranno messo in moto quel dolce e sottile sentimento della nostalgia.
E proprio ad essa Vito Teti, docente di Antropologia culturale presso l‘Università della Calabria, ha dedicato Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente (Ed. Marietti, 2020) Il volume, in cui confluiscono anni di studi e ricerche, è una sorta di summa sulla nostalgia, quel sentimento che scaturisce dalla perdita di un luogo, di un tempo, di abitudini, di radici e analizzato alla luce di una vastissima bibliografia scientifica, da ogni punto di vista: storico, medico, letterario, artistico, sociologico, politico, fornendo al lettore una visione d’insieme affascinante e per molti aspetti sorprendente.
L’idea di partenza dell’autore è che nella storia dell’umanità la nostalgia nasce e si sviluppa a partire dal momento in cui si verifica il passaggio da una concezione di tempo circolare - che ha come esempio il mito di Ulisse che ritorna nella sua Itaca -, alla concezione di un tempo lineare per cui il viaggio non consente alcun ritorno - come quello intrapreso da Abramo che parte per la Terra promessa. È il passaggio da una concezione pagana del tempo in cui tutto ritorna e in cui tutto si ripete eternamente, a una concezione ebraica del tempo in cui nulla potrà più essere come prima. Ma è a partire dal 1688 che il termine ‘nostalgia’ viene coniato per la prima volta (nostos = ritorno in patria e algos = dolore, tristezza), ricevendo una connotazione patologica che avrà credito per diversi secoli, sino quasi ai nostri giorni. Nella Dissertatio medica de nostalgia, Johannes Hofer, studente di medicina all’Università di Basilea, registrava puntigliosamente quel malessere profondo vissuto dai soldati svizzeri mandati all’estero per ragioni militari. La lontananza dalla casa e dalla patria, la perdita delle proprie abitudini, scatenavano una serie di sintomi che minavano la salute dei militari sino a farli precipitare in uno stato d’immaginazione “turbata”, “distorta”, da curare con farmaci, oppiacei e soprattutto col riaccendere nei ‘pazienti’ l’idea di un ritorno a casa.

In Italia, a partire dagli inizi del Novecento, di fronte alle influenze positivistiche di derivazione europea, si sviluppano studi e ricerche che si preoccupano di mettere in salvo le tradizioni popolari del passato, minacciate dagli entusiasmi di una dilagante fiducia riposta nel progresso scientifico. Le indagini demopsicologiche con Giuseppe Pitrè e le riflessioni storico-politiche degli esponenti della grande tradizione etnologica e antropologica di ispirazione marxista, concorrono ad alimentare quel sentimento di un passato perduto. Ad influenzare gli indirizzi di studio, Antonio Gramsci - con i suoi scritti sul folclore - e soprattutto Ernesto De Martino, autore di ricerche fondamentali sulla storia delle tradizioni popolari del meridione. Lo studioso napoletano, in particolare, riteneva che, per sfuggire al processo di smarrimento indotto dalla modernità, occorresse possedere «un villaggio vivente nella memoria» a cui poter fare ritorno per non perdersi nel mondo. Si può sottolineare, senz’altro, come la riflessione demartiniana conservi intatta la sua forza, la sua validità, in un tempo di globalizzata confusione politico–economica.
Non poche volte la riflessione si fa sferzante, apertamente critica, come di fronte a interpretazioni di eventi storico-sociali che rispondevano, unicamente, alle strategie di potere delle classi dominanti. È il caso del fenomeno del brigantaggio post-unitario che una frettolosa storiografia riduceva a semplici atti di disordine e di delinquenza, oppure l’emigrazione, che in vari periodi ha spopolato il meridione, senza considerarne le nefaste conseguenze sociologiche anche nel lungo termine.
Nessun campo di indagine viene escluso per investigare la nostalgia: accanto ai mostri sacri della ricerca storica, antropologica e artistica, trova spazio – oltre la consolidata tradizione del canto popolare - persino il mondo della canzone leggera con Albano e Romina, i Beatles, Sandro Giacobbe, Riccardo Cocciante. Nei titoli di alcuni loro successi è sbandierata proprio la parola nostalgia, oppure essa trasuda, prepotentemente, nelle note e nelle parole della immortale Yesterday del mitico quartetto di Liverpool.
Il panorama letterario poi, è particolarmente affollato di scrittori la cui opera narra un passato perduto, o che è sul punto di sgretolarsi per rimanere in un immaginario di rovine capaci di sprigionare nostalgie che fanno vivere o che fanno morire. Il corregionale Corrado Alvaro che vive e narra la dissoluzione dell’antico mondo calabrese delineando una sorta di antropologia dell’abbandono per effetto della fuga dalle campagne e dell’emigrazione – si pensi a Gente in Aspromonte (1930) o, a L’età breve (1946).
Scorrono poi i nomi di Ignazio Silone, Elio Vittorini, Mario La Cava, che fotografano il dissolversi del mondo contadino del Sud, delle sue tradizioni, dei suoi ritmi e dei suoi riti. Ma anche da altre aree geografiche troviamo autori come Francesco Biamonti (Liguria), Cesare Pavese (Langhe) capaci di registrare il tramonto di una civiltà, senza dimenticare l’imprescindibile esperienza – qualche decennio prima – di Carlo Levi col suo Cristo si è fermato ad Eboli. In altri, invece, s’avverte uno stato di disagio e di impotenza per la fine di un tempo storico-politico come in Josep Roth che vive la dissoluzione dell’impero asburgico, o come il turco Orhan Pamuk, nella cui scrittura riverbera sempre una tristesse per il passato impero ottomano.

Quando si parla di nostalgia, tuttavia, occorre sempre stare in guardia da una retorica che esalta un passato inventato, fatato, mai esistito, un passato che spesso è funzionale a strategie economico-commerciali come l’improvvisa e redditizia esplosione del mercato del vintage. Non solo, ma la nostalgia e il suo corrente significato, nel corso degli anni attraverso studi e riflessioni, hanno subito una vera e propria metamorfosi. Non più una condizione patologica da curare col ricorso alla medicina e né l’atteggiamento antimoderno di chi si rifugia in un passato verso cui è impossibile fare ritorno, rimanendo peraltro in uno stato di immobilismo, di generale conservatorismo che rifugge da ogni idea di progresso. Tutt’altro. La nostalgia – come sosteneva lucidamente Pier Paolo Pasolini - in realtà, non è mai conservazione, ma è sempre una critica rivolta al presente, un tentativo di trasformare, di cambiare il presente. La nostalgia quindi, ben lungi dal neutralizzare la storia, è capace di mettere in atto dinamiche potenzialmente sovversive, in grado di ipotizzare nuovi scenari futuri, di superare lo status quo e giammai tendere alla riaffermazione dello status quo ante. Si comprende allora l’importanza che riveste il significato della nostalgia e la necessità di controllarla, indirizzarla, neutralizzarla, al pari dell’accanimento che si è verificato nei riguardi della memoria storica (si veda la progressiva erosione dello studio della disciplina nelle scuole e il ridimensionamento dei enti e istituti storici). Non solo, ma, con grande acume Teti riporta le recenti riflessioni dello storico americano Mark Lilla il quale, oltre a leggere il preoccupante presente politico, offre anche una chiave di lettura delle crisi di visioni palingenetiche:

«… “i reazionari della nostra epoca hanno capito che la nostalgia è un potentissimo motivatore politico, forse ancora più potente della speranza”, perché mentre le speranze possono essere deluse, la nostalgia è indiscutibile. Elettrizzato dallo splendore del passato, il reazionario, rispetto al rivoluzionario, si considera “il guardiano di ciò che è successo davvero, non il profeta di ciò che potrebbe succedere"».

Si può dire, pertanto, che una distorta valutazione della nostalgia, nonché una manipolazione dei suoi effetti concreti, potrebbero minare persino l’esistenza della convivenza democratica favorendo, pericolose derive autoritarie. Uno scenario tutt’altro che fantascientifico.
Tuttavia, nel suo lungo itinerario sulla nostalgia, l’autore sostiene che sia giunto il momento di riconsiderare - anche alla luce della pandemia che ha evidenziato limiti e rischi del delirio di onnipotenza della società consumistica:

«Forse è diventato necessario elaborare una nuova forma per declinare l’umanità: vivere i margini, i limiti, riguardare il passato. Ripensare antichi saperi e sentieri. Rendere percorribili nuove vie dei canti, invece delle grandi arterie di cemento, dei ponti che crollano, delle sopraelevate che tagliano i paesi e invece di avvicinare hanno allontanato, invece di unire hanno separato, creando nuove solitudini».

E in questo nuovo modo di ragionare e di sentire trova spazio anche il concetto di “restanza” di cui Teti è promotore instancabile. Restare nel proprio paese, nel proprio luogo, in relazione al viaggio, all’andare lontano come condizione di autoaffermazione, è non solo un atto di coraggio, ma anche un atto creativo.
Vale la pena riportare la lunga e appassionata citazione in merito che assume il significato di un preciso indirizzo programmatico:

«L’avventura del restare – la fatica, l’asprezza, la bellezza, l’etica della restanza – non è meno decisiva e fondante dell’avventura del viaggiare. Le due avventure sono complementari, insieme vanno colte e narrate.
Restare non è stata, per tanti una scorciatoia, un atto di pigrizia, una scelta di comodità, ma un’avventura, un atto di incoscienza e forse di prodezza, una fatica e un dolore. Non si ceda alla retorica o all’enfasi, ma restare è la forma estrema del viaggiare. Restare è un’arte, un’invenzione; un esercizio che mette in crisi le retoriche delle identità locali. Restare è una diversa pratica dei luoghi e una diversa esperienza del tempo, una riconsiderazione dei ritmi e delle stagioni di vita.
Restare significa contare le macerie, curare gli anziani e gli ammalati, accompagnare i defunti, custodire e consegnare ricordi e memorie, raccogliere ed affidare ad altri nomi e soprannomi, episodi di mondi scomparsi o che stanno morendo. Restare significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui e ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio. … Restare significa raccogliere i cocci, ricomporli, ricostruire con materiali antichi, tornare sui propri passi per ritrovare la strada, vedere quanto è ancora vivo quello che abbiamo creduto morto e quanto sia essenziale quello che è stato scartato dalla modernità. Nostalgie, rimpianti, risentimenti attraversano le pietre, le grotte, i ruderi, le erbe che nascondono o proteggono le rovine, le piante di fico che accompagnano e provocano la caduta delle abitazioni. Le feste che si svolgono nei paesi abbandonati e diroccati svelano questi sottili e controversi legami con i ruderi; i pellegrini di ritorno tra le rovine segnalano forse anche un’insofferenza per i non luoghi e un desiderio latente di costruire nuove forme dell’abitare».

Una lettura notevole, terapeutica, che riappacifica, che stempera affanni e ritmi impressi dalle inarrestabili derive (e dittature) digitali, capaci di farci intravedere l’orwelliana resa dell’uomo nel “villaggio globale”.
Forse il Covid-19, per molti, ha fatto scattare un campanello d’allarme. Forse

Giovanni Nacca
Museo della civiltà contadina e artigiana
Pignataro Maggiore

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