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Valerio Magrelli: la preistoria paterna e l’impossibile cesura

mercoledì 2 novembre 2016, di redazione


V. Magrelli, Geologia di un padre, Einaudi, Torino
anno 2013 - pp. 143, ill. - Euro 18,00

Libro intrigante, dosato con vigile ironia e struggente memoria, non privo di qualche sfumatura tenebrosa, è quello che il noto poeta romano scrive sulla figura paterna a conclusione di un’esperienza narrativa iniziata da tempo con Nel condominio di carne (2003) e proseguita poi con La vice-vita (2009) e Addio al calcio (2010). Una sorta di diario che raccoglie annotazioni e appunti scritti in un decennio, nel corso del quale l’ingegnere Giacinto Magrelli, vecchio e malato, si avvia alla morte.

Nel rievocare, con grazia e realismo, ricordi familiari anche lontani, il libro svela non solo l’intuibile complessità di una relazione che ha segnato fortemente l’autore sin da ragazzo, ma al tempo stesso, si configura anche come una riflessione sulla morte che aleggia in ogni pagina. Un lascito che nessuno può rifiutare. Il testimone che ogni figlio scopre, con rassegnato stupore, che non si può non raccogliere. È questo il filo conduttore sotteso nella narrazione che si snoda attraverso 83 capitoli, tanti quanti gli anni di vita di un padre che rimane a camminare nei pensieri e nelle azioni di un figlio, nonostante il suo percorso di individuazione compiuto per allontanarsene.

In modo singolare, la narrazione prende il via in un cimitero, dove l’autore sovrintende alcuni lavori urgenti nella tomba di famiglia. Il sito è in pessime condizioni e le bare quasi galleggiano in una specie di acquitrino per le infiltrazioni d’acqua. La storia nasce, dunque, proprio dove tutto sembra essere giunto a destinazione. Con abilità, infatti, Magrelli fa spesso ricorso a repentini capovolgimenti concettuali, a spiazzanti inversioni di senso. Tra inizio e fine non vi è alcuna soluzione di continuità: inizio e fine coincidono. Quasi sentiamo riecheggiare le parole di José Saramago: «Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. … La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro». Il viaggio narrativo di Magrelli parte così dalle lontane origini paterne, le cui radici sono a Pofi, in Ciociaria, terra che conserva tracce preistoriche notevoli, col rinvenimento dell’Uomo di Ceprano, ma anche con l’Uomo di Pofi, a cui Magrelli associa la figura del padre definendolo pofantropo. L’atmosfera inquietante del luogo, la scoperta raccapricciante delle rese («ogni resa equivale a un corpo, o piuttosto a ciò che ne rimane una ventina d’anni dopo»), il via vai di corpi, tutto contribuisce a stendere un velo di opacità, a diffondere un sentore di umido, di muschio, di melma, come se fossimo su un sito paleoantropologico di fronte alla scoperta dei resti di un ominide risalente a milioni di anni fa. L’ominide è’ l’ingegnere Magrelli: l’uomo del pleistocene, un uomo che agli occhi del figlio è sempre più proiettato nelle ombre del suo passato, mentre il presente, anche per l’incipiente malattia, assume contorni liquidi, indecifrabili. E allora ritornano con precisione i ricordi, riannodando il filo del tempo trascorso: l’incapacità del padre di vivere i giorni festivi, le estenuanti estati trascorse ad Alassio, una vacanza sugli Appennini dove, ragazzino, l’autore scopre i funghi, e ancora, la mortale noia domenicale, dissipata poi solo giocando a pallone. Momento magico quest’ultimo che lo scrittore sottolinea con commozione, confessando che «giocare da soli, col padre, è un momento struggente, insostenibile. Quei pomeriggi domenicali, a fare due tiretti, mentre una radiolina gracchiava i risultati. Non mi sono ancora ripreso». Gli sovviene la solitudine nello studio del padre, dove scoprì la lettura come salvezza che risiedeva nei libri. Fino alla tristezza della degenza ospedaliera quando l’anziano padre ha già intrapreso il viaggio senza ritorno nelle sterminate praterie del Parkinson.

Ha un’ammirazione sconfinata verso quell’uomo, generoso, riflessivo, ma allo stesso tempo collerico, capace di esplodere improvvisamente come un vulcano. Ne è ancora affascinato nel ripensare all’impeto folle con cui, senza calcolo, reagiva agli affronti e alle volgarità di una società che esibiva i primi i segni di un lento, ma inarrestabile corrompersi dei costumi: un incauto pasticciere, un turista irrispettoso delle regole, un gruppo di ragazzi che lo prende in giro. Incurante di ogni conseguenza, aggrediva chiunque come «un epilettico, al quale, nel cuore della trance, si dischiudeva l’illuminazione finale della bestemmia». È un uomo in preda all’ira, un uomo che rappresenta «una famiglia di clastomani, ovvero di creature sofferenti, offese dalla vita, dagli oggetti medesimi». Come quando non riuscì ad aprire una scatola di biscotti e colmo di ira non poté fare altro che saltarvi sopra, disintegrandoli davanti allo stupore dei presenti. E proprio in questi accessi d’ira l’autore scopre con orrore di somigliargli: pure lui, incapace di sistemare una stampante, finisce col distruggerla in un boato di rabbia incredibile. È allora che sente di portare dentro il padre: «… mi sono accorto di essere ancora schiavo di un meccanismo mimetico da cui mi consideravo ormai in salvo. Invece, i flutti mi risucchiano indietro. Io sono mio padre che salta sull’apparecchio guasto, così come lui saltava sui suoi biscottini». Con un senso di repulsione scopre di essere rimasto contagiato e con un elegante richiamo manzoniano ammette: «… una piccola parte di quel tossico, mi ha segnato, mi ha intaccato. Non così a fondo come lui, ma di striscio, lasciandomi a metà strada rispetto al suo buio ipocondrico. Diciamo un monatto». Dunque, una sorta di determinismo biologico ci orienta, ritroviamo già inscritto un codice a barre che ci riconduce al padre. Ogni differenza tra i due rimpicciolisce, fino a scomparire quasi. Si ha la sensazione di stare come su un binario unico, un po’ come succedeva quando da bambini si giocava coi trenini elettrici a binari circolari. La locomotiva (il figlio) parte, acquista velocità, si stacca con decisione dalla stazione (il padre), ma poi, quell’unico percorso la riporta inesorabilmente al punto di partenza, all’origine lontana di ogni cosa, dai cui ripartirà all’infinito, per l’identico e inutile tentativo di fuga.

La stessa struttura del libro è la dimostrazione dello sforzo compiuto per allontanarsi dal buco nero e affermare la propria identità. Difatti, alla prefazione che riproduce i disegni architettonici dell’ingegnere Magrelli, segue il corpus narrativo, per chiudere, infine, con un’appendice, Cronache dal pleistocene, che comprende quattro poesie dell’autore. Ma tutto sembra inutile. Lo stesso titolo della sezione rimanda ai tempi geologici di un padre che appare come «il fantasma di cui sono il lenzuolo», come un parassita che lo consuma: «È immagine di poesia, la figura/ paterna che si nutre di me,/ la tenia che divora da dentro la mia vita?».

Giovanni Nacca

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