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Don. F. Montesano (18): Discorso sulla bontà dei secoli cristiani

sabato 23 marzo 2019, di redazione


Proseguiamo la ricognizione tra le carte di don Francesco esaminando un testo che potremmo titolare ‘Discorso sulla bontà dei secoli cristiani rispetto ai precedenti e sulla pratica dei precetti cattolici da parte dei comunisti’. Non susciti stupore questa seconda asserzione. Il prete era notoriamente comunista, era stato sottoposto al confino per questo, intratteneva con il partito intensi rapporti, come abbiamo visto in precedenza.
Non ci è dato sapere lo scopo di questo scritto, se fosse la base di un testo più esteso e organico, se fosse la traccia di un panegirico, un sermone rivolto a menti semplici o una mera esercitazione, né a quando risale. Il documento, in due copie scritte a mano con calligrafia leggermente diversa e sicuramente più ordinata rispetto ai documenti esaminati in precedenza (ciò fa supporre che la sua redazione sia di molto anteriore al periodo buio vissuto dal sacerdote, forse addirittura quando era ancora studente o appena ordinato), espone in maniera piuttosto generica il percorso dell’umanità, condannando tutto quello che c’era prima della venuta di Cristo ed esaltando quello che è venuto dopo, contrapposizione tra barbarie e civiltà, bestialità e amore, “vita di sproporzioni e discordie” e, di contro, un mondo di pace e di armonia in cui gli uomini si abbracciano da fratelli.
La tesi di don Francesco era che il tempo a. C. era dominato dall’intolleranza, dalla violenza, gli uomini si soggiogavano vicendevolmente, l’armonia era sconosciuta. Eppure non mancavano “filosofi eccelsi” che, tuttavia, giustificavano “il servaggio” come diritto di natura. In quel mondo di sopraffazioni la donna era di fatto l’anello debole della società, “non dava sorrisi se non forzati e venderecci”, era al livello dei servi.
Ma ecco che le cose cambiano d’incanto. In Galilea “sorge l’alba rigeneratrice” e gli uomini si riconoscono finalmente fratelli, senza più differenze. Cadono le barriere, la superbia e l’odio, uno spirito nuovo pervade la società. La donna, adesso, viene considerata con rispetto. Anzi il rapporto uomo-donna ritrova la bellezza del tempo dell’Eden!
Tuttavia l’umanità non prosegue sulla via della perfezione. Dopo duemila anni si è imposta una adesione abitudinaria al Vangelo e son tornati l’egoismo, il personalismo, la smania di grandezza. La donna è venuta meno ai suoi diritti e doveri.
Ma… il documento termina con una parola di speranza. Non tutto è perduto perché in lontananza “s’ode un canto sgorgante dal petto di milioni di esseri”. E’ una nuova alba nella storia dell’umanità. Gli uomini sono pronti nuovamente ad aiutarsi e sostenersi e la donna va riprendendo la sua missione di incoraggiamento, di sprone e conforto. Con una piroetta inconsapevole (?) l’autore mette insieme ancora due momenti storici molto lontani: la predicazione di S. Francesco (amore e rinuncia) e l’azione dei comunisti democratici i quali, pur non facendone “esplicita professione dottrinale”, mettono in pratica principi fondamentali dell’etica cattolica, si pensi all’uguaglianza e alla fratellanza. Grazie a loro si instaurerà un nuovo mondo di pace e d’amore sulla terra.

In poco più di 60 righe e circa 900 parole don Ciccio mette insieme tanti argomenti con un andamento a pendolo tra l’antichità e i tempi moderni, tra il prima e il dopo, tra l’alba del Cristianesimo e l’epoca attuale, tra la predicazione del Santo di Assisi e il presente che anticipa un futuro luminoso, assicurato dalla nuova ideologia, l’unica in grado di attuare i principi cristiani.
E ogni volta si fa riferimento alla donna, ora meretrice, ora pura, ora traditrice della sua missione, ora motore di una nuova umanità. Ci pare una sorta di ossessione, la manifestazione di un’aspirazione angosciosa alla purezza di fronte a una società che gli deve apparire immorale, corrotta, viziosa.
Il testo che riproduciamo di seguito, dal punto di vista storico è piuttosto parziale e tendenzioso, superficiale e approssimativo. Il linguaggio è ricercato, con frequenti inserimenti di termini desueti (agnati, servaggio, rapsoda…) e di citazioni latine. Lo pubblichiamo per completezza di trattazione e pubblicazione delle carte di Don Francesco. In ogni caso, come già detto, ci sembra un’altra testimonianza del tormento interiore che lo agitava e anche una giustificazione a se stesso della scelta politica che aveva fatto.

"Prima che la parola di Gesù Cristo, vibrante d’amore universale, piena come un’armonia equorea, amabile come il sussurro degli oliveti in fiore, si facesse sentire nel mondo, la fratellanza era una cosa ignota; gli uomini vivevano non uniti d’affetto, non congregati. Non solo chi reggeva la cosa pubblica, ma anche i privati aggiogavano gli uomini, per cui veniva formata non una comunanza di simili, ma una gerarchia di contrari, una vita di sproporzioni e di discordie. L’armonia non dilettava, non esaltava quei cuori non avvezzi all’amore.
Pitagora la trovava in ogni parte dell’universo, ma non nella società civile. Il servaggio cieco dell’uomo all’altro uomo era promulgato in diritto, come se non bastasse ad autenticarlo il fatto brutale: filosofi eccelsi fondavano questo diritto nella natura.
La parte più debole dell’umanità era la donna: venduta, tradita, abbandonata, non dava sorrisi se non forzati o venderecci, non dava altre gioie se non avvelenate. Il matrimonio era per lei compra o permuta; pareggiata ai servi e ai liberti, era legata alla tutela perpetua dei suoi agnati; era una nullità.

Appena dal glauco cielo di Galilea sorge l’alba rigeneratrice, questa mostruosa convivenza del mondo è condannata a morte. Gli uomini si guardano, e ricchi e poveri e sapienti e intellettuali si riconoscono: si riconoscono per i lineamenti divini che portano in faccia; si riconoscono per la lingua che parlano e che non è forestiera; si riconoscono per il cuore che palpita e nello stesso modo sospira; si riconoscono per lo stesso viaggio che fanno sulla terra, per la medesima meta cui s’avviano. E questi uomini non possono andare disgiunti: incontrandosi per le vie s’abbracciano e “Salve fratello”. La donna allora fu considerata con rispetto e purezza; ma lontano dalla tristezza d’un eccessivo ascetismo, ebbe la fronte illuminata dal triplice raggio di vergine, di sposa, di madre. Dove sono più le barriere di ferro, che dividevano gli ordini civili all’età degli antichi? Dove la superbia dei soprastanti; la viltà dei soggetti, l’odio comune? Uno spirito nuovo agita il petto dell’umana società. Essa ha il sangue rifatto, ha deposto le rughe, ha rotto i cancelli; l’inferma è guarita, la prigioniera è uscita a libertà.
Le cose furono ricondotte alla bellezza dei loro inizi, il ritorno dell’età dell’Eden: ogni uomo diventa Adamo, che si unisce con dolcissima estasi a Eva, ed Eva diventa ogni donna che al marito dilettosamente s’impalma: “et erunt duo in carne una”. Tertulliano, rivolgendosi alla moglie, esclamava ogni volta: “Soror carissima, dilectissima mihi conserva”.

Da duemila anni ci siamo talmente abituati alle parole dell’Evangelo, da essere ormai diventati sordi e ciechi per esso: lo ripetiamo come la tavola pitagorica.
L’uomo è tornato, haimé (sic), ad essere homini lupus. Un egoismo esagerato muove l’animo umano, un iperbolico personalismo annienta quello che è il sentimento della fraterna convivenza, d’idealità della rinuncia.
I popoli sono mossi dalla smania di grandezza, sono agitati dall’avidità di crescere di stato; la rapacità informa tutti e singole le loro azioni; con la ricchezza e con la forza cercano imporsi e dominare il mondo dimenticando che non habemus hic manentem civitatem. La stessa donna ha oggi quasi de facto completamente perduto il triplice raggio di Vergine, di sposa, di madre. Scambiando il fine con il mezzo, ha derogato ai suoi diritti e ai suoi doveri. Essa, vedendo nella famiglia un peso e non un tempio, credendo esser questo il prodotto di un contratto e non la sintesi di amore, non fa del suo cuore un’ara, ai cui gradini si provano dolcezze infinite e su cui si sacrificano con volontà e con gioia pensieri, sentimenti e desideri.

Ma s’ode in lontananza un canto, sgorgante dal petto di milioni di esseri, dai cui occhi si sprigiona un raggio pieno di fulgore, i cui cuori sussultano e palpitano, che sentono che essi, non dovendo essere la nota discordante nell’armonia dell’universo, debbono vedere nel loro simile non colui che è pronto a rapinarlo, a offenderlo ad annientarlo, ma chi giulivo gli tende la mano, e nella strada, che insieme percorrono, dolcemente gli sussurra: “Compagno coraggio”. La donna, ridiventata apostolo, ripigliando il posto che per missione le compete, nei momenti di abbattimento, di stanchezza morale, a chi lei prescelse, con negli occhi la fiamma della passione, cingendolo con materna amorevolezza dice “Su compagno, la vita è lotta

Da un verde colle umbro, mite come un agnello, generoso come il Nazareno, un poverello, nudo sotto il saio e con l’anima più nuda sotto le umili palpebre, emigrò nel mondo. Predicò di amore, di rinuncia, tornò a dire, a dimostrare con l’esempio che come il diritto alla vita è uguale per tutti, così tutti debbono essere contenti di ciò che può dare la vita. E a Francesco d’Assisi, rapsoda del vangelo, rispondono i comunisti democratici, rapsodi dell’ideale, i quali nella poliedrica loro manifestazione attuano, benché non ne facciano esplicita professione dottrinale, l’etica cattolica nei suoi principi fondamentali. Fin da ora i primi albori cominciano a spuntare con un fievole bagliore con le prime stelle della notte, e forse una nuova Divina Commedia canterà le glorie, e forse una Decima Sinfonia di un nuovo Beethoven esalterà non più il caos antico, ma un nuovo regno di amore, di pace, di fratellanza universale, di eguaglianza completa".

frates

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