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sabato 18 novembre 2017, di redazione
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Lo so, ne sono convinto, non è con le lapidi, i cippi, le commemorazioni, con le medaglie alle memorie o con i monumenti che si rende giustizia a chi muore. No, la giustizia è ben altra cosa. Con questi orpelli ci si lava solo la coscienza. A volte, però, neanche questo si riesce a fare. Si chiamavano Nina e Antonio. Una era una giovanissima infermiera, figlia e sorella di pescatori di Procida. L’altro era un bel ragazzone, alto, con i baffetti e gli occhi vispi, simpatico.
Aveva poco più di quaranta anni, sposato con due figli, ancora molto piccoli. Era nato a Grazzanise Antonio, a ridosso della pista di decollo dei jet supersonici. È guardandoli decollare e atterrare che Antonio decide di fare l’elicotterista della Polizia a Napoli.
Antonio e Nina si incontrarono tardi, nell’ora della loro morte. Era il 18 novembre di ventidue anni fa. Il vento quella mattina soffiava forte. Le raffiche avevano una forza di più di cento chilometri all’ora. Era proibito navigare, era proibito volare. Qualcuno a Procida disse che un ragazzo era in pericolo di vita e doveva essere salvato. Non era vero, ma in molti ci avevano creduto. C’erano regole, divieti, ma c’era l’emergenza. Era proibito volare. Qualcuno si rifiutò, ma qualcun altro decise di farlo, di sfidare le forze della natura, sotto la propria responsabilità. Antonio dovette seguirlo, non spettava a lui decidere. La loro ultima aria, Antonio e Nina la respirarono su di un campo sportivo di Procida, dove l’elicottero, quando il pilota che era ai comandi ne perse il controllo, si ribaltò. Il loro sangue si mescolò all’acqua ed al fango del terreno di gioco, dove il vento soffiava ancora più forte.
Fonte: paolomiggiano.it/blog